al Massimo dell'Energia


Una storia da cui si deve imparare
settembre 11, 2009, 4:37 PM
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Il sudafrica e l’apartheid, due concetti che sono in qualche modo stampati nell’immaginario collettivo di chi ha almeno 15 anni. Si studia a scuola, se ne parla occasionalmente, come un fenomeno che ha segnato la storia dell’umanità.

Poi un giorno, vai in Sudafrica, a JNB parli con una donna di colore, che ha vissuto i giorni della fine dell’aberrazione sociale che ha fatto la storia di questo paese.

Premessa: qui ti muovi solo in taxi per le lunghe strade che circondano JNB. Cosa Vedi? Tanti alberi e tanti operai nei cantieri stradali. Tante auto, ci sono solo quelle, qui.

Si viaggia solo nella zona suburbana di JNB, perchè il centro pare essere off-limits, una specie di sin city. Se ci vai, è a tuo rischio e pericolo. Come dire, ti avevamo avvertito.

Poi vedi le case. Tutte molto basse, al massimo 2-3 piani, in lottizzazioni abbastanza vaste, rigorosamente recintate da muri di cinta. Poi l’occhio distratto del business traveller, a forza di vedere questi quartieri recintati, aguzza la vista, e scopre che su ogni muro di cinta, ci sono, sottili ma immancabili, fili elettrici.

Poi metti a fuoco ancora di più e inizi a leggere i cartelli di ferro presenti su tutte le recinzioni….High Voltage, teschi, simboli di scariche elettriche, e poco sotto, sui muri, la frase più ricorrente che puoi vedere da queste parti…”Armed Response”. Non è intuitiva, ma poi ti arriva.

Allora il viaggiatore inizia a fare alcuni collegamenti e si dice: “mi ricorda qualcosa….”. La sicurezza è importante…ma se l’apartheid è finito, se sono tutti liberi, perchè i bianchi abitano ancora in queste fortezze?

Mi ricorda qualcosa…..quartieri dispersi per il vastissimo territorio, circondati da alti muri, fili spinati elettrificati, e cartelli con scritto “rispondiamo con le armi”….cosa mi ricorda….

Poi arriva la sera in cui si chiacchera con la donna sudafricana di colore. Nel 1990, quando Mandela fu liberato dopo 27 anni di prigionia, lei aveva 18 anni. Le chiedo con curiosità: “cosa ricordi di quei giorni?”. E, orgogliosa, mi racconta la storia, una storia di emozioni, di una diciottenne, che si trovava a vivere uno degli eventi più grandi dei nostri tempi.

Quando Mandela fu liberato, pare che fece il primo discorso alla nazione proprio qui, a Johannesburg. I ghetti dei neri vennero aperti, e tutta la gente di colore fu libera di muoversi ovunque volesse, salire sui pulman, entrare nei ristoranti. Ma era povera. E i bianchi erano ricchi, pur essendo il 16% della popolazione.

Decine di migliaia di Sudafricani neri, raggiunsero lo stadio di JNB per sentire il primo discorso di Mandela da uomo libero. La donna racconta che lei era ll’ultimo anno di scuola, una scuola cattolica di Soweto, dove gli insegnanti, grazie alla religione, filtravano pesantemente la visione che gli studenti avevano del mondo. Gli studenti sentivano parlare le loro famiglie del fatto che quest’uomo, Mandela, li aveva fatti liberare, ed ora avrebbero potuto impadronirsi delle ricchezze dei bianchi, delle loro case. Finalmente non erano più poveri, perchè si sarebbero ripresi quello che i bianchi gli avevano negato con la repressione violenta dell’apartheid.

Decine di migliaia di neri (black) e colorati (Coloured – si distinguono così, non è uno scherzo) si recarono allo stadio, per sentier le parole del loro salvatore, e capire come dovevano comportarsi.

Mi immagino il fermento, da un giorno all’altro, 30 milioni di persone passavano dalla schiavitù alla libertà, ed è comprensibile che si può essere disorientati.

E allora si attendevano le parole di Nelsono Mandela…cosa dovevano fare di ‘sti bianchi? Come li dovevano trattare? Li dovevano mettere tutti nei campi di concentramento ed entrare direttamente nelle loro case, sedersi sulle loro poltone di vimini, finire le birre dei loro frigoriferi a due ante, e sedersi davanti ai loro televisori di ultima generazione?

Mandela iniziò a parlare…quell’uomo aveva 72 anni, era stato per 27 anni in prigione. Detenuto su un isola di fronte a Città del Capo, isolato. Ma era Mandela, colui che avrebbe dopo pochi anni ricevuto il premio nobel per la pace. Aveva combattutto per la libertà del suo popolo dagli anni 50, inizialmente seguendo gli insegnamenti di Mahatma Gandhi. Era passato alla lotta armata per opporre resistenza allo strapotere dell’esercito dei bianchi (anche questo mi ricordava qualcosa). Venne sconfitto, e imprigionato.

Iniziò a parlare a milioni di sudafricani; loro pensavano di sentire dalle sue parole come fare per andarsi a riprendere le ricchezze dei bianchi e di doversi vendicare degli incredibili maltrattamenti dell’apartheid, e lui disse: “cittadini, fratelli e sorelle, ora siete liberi: liberi di tornare alle vostre case, e di studiare nelle scuole insieme ai bianchi. Imparate, innalzate la vostra cultura al livello dei nostri concittadini bianchi, e potrete presto competere con loro nel mondo del lavoro, della cultura della politica e della società. Solo così potremo avere allo stesso tempo la pace e il benessere che ci spetta”.

Pare che non ci fu delusione, il messaggio fu capito.

Dopo 4 anni, nel 1994, ci furono le prime elezioni democratiche, e Nelson Mandela divenne presidente del Sudafrica. Il governo fu composto quasi esclusivamente di neri.

La donna che mi ha raccontato questa storia ora è direttore vendite di una importante società di informatica della nazione.

In macchina verso l’aereoporto, mi si è accesa una luce e mi è affiorata alla mente la soluzione alle mie domande: cosa mi ricordavano quelle case circondate dal filo spinato, protette da corrente elettrica e da guardie armate e tutti quegli operai neri nei cantieri stradali, ferroviari edili…era come mi sono immaginato sempre la palestina: colonie di israeliani prodotte da militari e filo spinato, e palestinesi che lavorano per pochi spiccioli. Qui è arrivato Mandela, in Palestina chi ci ha provato, non ce l’ha ancora fatta. Ma la strada è segnata, si può fare.

Ora il Sudafrica è in fermento, nel 2010 ci saranno i mondiali e i palazzi nuovi, futuristici e sfavillanti, sono tutti dotati di pannelli fotovoltaici per l’indipendenza energetica. Speriamo che presto l’energia prodotta dai pannelli fotovoltaici sia utilizzata per le luci degli stadi e mai più per i fili di protezione.